PRIMA DI APRIRE LA BOCCA ASSICURARSI CHE IL CERVELLO SIA INSERITO

PRIMA DI APRIRE LA BOCCA ASSICURARSI CHE IL CERVELLO SIA INSERITO

Informazioni personali

La mia foto
Sono una psicologa siracusana e provo una grande passione nel trasmettere il mio pensiero e le mie conoscenze

martedì 13 ottobre 2009

Le malattie psicosomatiche. di Francesca Cianci

La malattia psicosomatica è una branca della medicina che pone l’attenzione sulla relazione tra la mente e il corpo, tra il mondo emozionale e il disturbo organico, e si occupa di capire l’influenza che l’emozione esercita sul corpo. In ambito medico è ormai largamente diffusa la concezione secondo cui il malessere fisico possa essere in gran parte l’espressione di un malessere psichico. Si ipotizza dunque che una condizione di tipo psicoemotiva possa agire favorendo addirittura l’insorgere di una malattia o, al contrario, favorendone la guarigione. In questo caso i sintomi vengono osservati dai medici in modo complementare e unitario, da un punto di vista sia fisiologico che psicologico. Ci sono persone che anche in giovane età si trovano a lottare di continuo contro una serie di piccoli fastidiosi disturbi che influenzano la loro vita e le relazioni con gli altri. Questi fastidi vanno dalla stanchezza cronica alle vertigini, dolori muscolari, raffreddori continui, cefalee, tachicardia, coliti, gastriti, ulcere, dermatiti, psoriasi, asma, allergie anche alimentari, labirintite, emorroidi, stipsi cronica,… . Oggi la medicina ufficiale riconosce che l’80% delle malattie sono di origine psicosomatica, ma se ne parla ancora assai poco. Purtroppo le persone che soffrono di questi disturbi non si sentono compresi né dai medici, da cui spesso vengono liquidati con una sbrigativa diagnosi di “stress”, né da familiari e amici, stanchi di ascoltare lamentele continue. E’ da osservare che chi è affetto da disturbi psicosomatici non è, come potrebbe essere ovvio pensare, un malato immaginario; i malesseri sussistono realmente e sono spie di profonde sofferenze psicologiche, di cui spesso il soggetto non è consapevole. Come ogni genere di disagio psicologico, ogni malattia psicosomatica ha una storia personale. Le emozioni che ci attraversano quotidianamente influenzano il funzionamento del nostro organismo al punto tale da far sì che possa cambiare anche il nostro metabolismo, e nel tempo l’intero sistema immunitario può venire fortemente condizionato e indebolito dalle nostre emozioni negative. Il “sentirsi male” ha una funzione molto importante per certe persone. Spesso ad esempio, i sintomi psicosomatici sono l’espressione di un inconscio rifiuto ad accettare qualcosa che “non si digerisce” e rappresentano dunque un desiderio di fuga dall’affrontare situazioni emotive difficili; in questo caso il sintomo è la manifestazione di un rifugio. In altri casi ancora i disturbi rappresentano l’unica possibilità di essere “speciali” e di accattivare l’attenzione di familiari e amici; è un meccanismo che equivale ad una sorta di “risarcimento emotivo” per non essersi sentiti sufficientemente amati nel contesto familiare, o in altro modo, ci si è sentiti amati solo quando si stava male; di conseguenza queste persone nel tempo hanno imparato che possono riuscire ad interessare solo stando male. A volte il ruolo di “malato cronico” può diventare una vera e propria identità. La malattia psicosomatica dunque è l’esasperazione di un sintomo già esistente; il disturbo corrisponde alla difficoltà di manifestare adeguatamente il proprio disagio emotivo; il linguaggio scelto da queste persone è quello corporeo. E’ importante sapere che non ci si ammala volontariamente e che nella maggior parte dei casi il soggetto è assolutamente ignaro circa questo tipo di meccanismo. E’ opportuno dunque che le cause del proprio malessere vadano ricercate all’interno del vissuto proprio di ogni persona sofferente, nella sua vita, nello scorrere delle sue giornate, senza che ci si stacchi dalla propria realtà. Molte persone hanno bisogno di crearsi una vita ideale che ad un certo punto inevitabilmente si scontra con quella reale… è a quel punto che nascono i conflitti interiori, i quali se non vengono espressi attraverso la comunicazione verbale, si manifestano attraverso il corpo e dunque con il sintomo psicosomatico, che si trasformerà in malattia psicosomatica fino a che il soggetto non imparerà ad averne consapevolezza e ad usare linguaggi più adeguati per far fronte alle proprie reali difficoltà.

Dott.ssa Francesca Cianci
Psicologa-psicoterapeuta
fracianci@alice.it

Le classi ponte. di Francesca Cianci

LE CLASSI PONTE

All’interno del clima surriscaldato che l’Italia sta vivendo nell’ultimo periodo attorno all’universo scuola, è mio desiderio porre l’attenzione sull’argomento delle “classi ponte”, cioè quelle classi che dovrebbero servire per “affrontare senza preconcetti il problema dell’insegnamento a ragazzi stranieri nelle nostre scuole”. La motivazione che sta dietro a questa proposta è quella di poter permettere ai bambini stranieri di “essere alla pari” con gli studenti italiani. Ma davvero la cecità di chi propone simili programmi arriva al punto tale da non percepire quali possano essere gli effetti devastanti di tali scelte? Soprattutto per quanto riguarda la crescita psicologica, intellettiva ed emotiva dei bambini! C’è ancora chi ritiene che integrazione sociale, relazioni umane e affettive, inserimento e pari opportunità, possano dipendere da nozioni impartite in modo linguistico, seppur corretto e approfondito? Essere alla pari con i bambini italiani non significa saper parlare l’italiano come loro; significa riuscire ad entrare dentro la loro cultura proponendo nel contempo la cultura di provenienza dei bambini stranieri. E’ nelle diversità che si realizzano le pari opportunità. E’ la diversità che arricchisce sia gli uni che gli altri. Si pensi a come si possano sentire i bambini provenienti da altri paesi, in una terra straniera, dove vengono collocati in uno spazio chiuso solo a loro, per cercare di fare in modo che “si adeguino al contesto”! è il miglior modo per marcare una condizione di inferiorità, di subalternità, che certamente non crea né le condizioni per una vera integrazione socio-ambientale né i presupposti per una condizione di benessere dei bambini stranieri. Una vera integrazione deve essere basata sulle diversità culturali, sugli scambi di sapere, più che su linguaggi correttissimi. Le classi ponte rischiano gravemente di trasformare gli studenti in bambini socialmente disuguali e dunque rischiano di strutturare conflitti che si trasformerebbero inevitabilmente in grossi disagi per i bambini stranieri. Da un punto di vista più strettamente psicoemotivo inoltre si creerebbero le condizioni propizie per far sì che si sviluppi un terreno in cui probabilmente si infiltrerebbero componenti di intolleranza, di violenza e di aggressività. E ancora, i bambini, ed è un fatto universalmente riconosciuto, imparano con molta disinvoltura termini e linguaggi nuovi, stando a stretto contatto con i loro coetanei, da cui imparano non solo la nuova terminologia, ma soprattutto nuove abitudini, nuovi modi di comportamento, nuove culture che, per quanto capace possa essere l’insegnante, difficilmente riuscirebbe a trasmettere dall’alto di una cattedra. Lo stare assieme tra bambini di culture diverse non può che portare beneficio a tutti loro. Stando insieme all’interno di una stessa classe, si mettono in moto dinamiche vantaggiose per l’intera scolaresca: il coinvolgimento nelle attività ludiche, l’affiancamento nelle diverse discipline, la comunicazione gestuale per entrare in contatto, la complicità, la curiosità reciproca… sono tutti stimoli che favoriscono lo sviluppo sano dei bambini tutti, italiani e non. Una vera integrazione riguarda sia i bambini stranieri che italiani e non passa attraverso l’adeguamento forzato e sofferto degli uni agli altri. Evitare la possibilità di un’integrazione in tal senso peraltro, fa disperdere grandi possibilità di apprendimento e di crescita intellettiva. Ci sarebbe ancora molto da dire su queste e altre devastazioni che si stanno operando oggi nella scuola italiana. Si dovrebbe capire che il punto cardine della scuola dovrebbe essere quello di creare relazioni, imparare a leggere gli intrecci tra un luogo e l’altro, tra le diverse culture, cercare le radici dell’essere uomo e capire quali sono stati nel tempo gli errori di cui si è stati responsabili… ah dimenticavo! Certamente mentre si impara a leggere, scrivere e far di conto!

Francesca Cianci

la malattia di Alzheimer. di Francesca Cianci

LA MALATTIA DI ALZHEIMER COMPIE CENTO ANNI ( da malattia ad epidemia : non c’è tempo da perdere ! )

Il 4 novembre 1906 il neurologo tedesco A. Alzheimer presentava a Tubigen il caso di Augusta D. , una signora che soffriva di una grave forma di demenza progressiva.

Più tardi , nel 1910 , E. Kraepelin , famoso psichiatra , definì per la prima volta questo tipo di demenza “malattia di Alzheimer “.

A 100 anni dalla scoperta del primo caso , oggi siamo in grado di affermare che la malattia di Alzheimer rappresenta un fenomeno dalle dimensione drammatiche .

Nonostante il numero delle persone colpite sia in costante crescita , ancor oggi questo tipo di demenza non riceve l’attenzione adeguata e il riconoscimento che dovrebbe avere ed è tuttora circondata da disinformazione e pregiudizi che creano ostacoli verso un miglioramento generale delle condizioni del malato .

La ricorrenza del centenario offre un’importante opportunità per aumentare la conoscenza della malattia , per fare il punto della situazione non solo sui progressi nell’assistenza e nel trattamento , ma anche sui bisogni di 24 milioni di persone che , insieme alle loro famiglie , sono rimasti vittime della demenza di Alzheimer .

E’ nostra intenzione , con questo scritto , informare che a Siracusa sta crescendo ogni giorno di più , grazie agli operatori che vi lavorano , il centro U.V.A. ,all’interno della ASL n. 8 , con le diverse attività miranti ad andare incontro ai bisogni del malato e della sua famiglia .

Il percorso che abbiamo intrapreso già da diversi anni prevede , oltre l’attività diagnostica e le cure farmacologiche necessarie ai diversi casi , svariate tecniche psicoriabilitative miranti a mantenere e a stimolare il contatto cognitivo del paziente con la realtà , attraverso metodologie specifiche . Parallelamente uno dei principi che sta alla base dei nostri interventi terapeutici è “prendersi cura del malato insieme alla sua famiglia “.

L’approccio terapeutico al paziente demente non può prescindere dalla presa in carico anche del familiare caregiver ( è il familiare che si occupa del malato ) , consci della drammatica sofferenza che investe l’intero nucleo familiare del malato di Alzheimer . E’ a tal fine che periodicamente organizziamo i gruppi di formazione – informazione per i caregiver ; tali gruppi sono volti ad informare i familiari su tutto quanto ruota attorno alla problematica della malattia .

E’ fondamentale sottolineare che lo scenario attorno alla patologia di Alzheimer sta rapidamente cambiando ed è necessario sapere che oltre alla presenza di nuovi farmaci , esistono metodologie psicoriabilitative ed interventi terapeutici specifici volti a migliorare la qualità di vita del malato e ad attenuare l’alto livello di stress dei familiari che si occupano del loro caro .

La ROT ( tecnica di riorientamento spazio – temporale ) , la Terapia Occupazionale ( mirata ad adattare l’ambiente alle ridotte capacità del malato ) la Stimolazione Cognitiva ( finalizzata a potenziare le funzioni mentali residue ) la Musicoterapa ( riporta a galla emozioni e ricordi apparentemente nascosti ) , la Psicomotricità ( aiuta , attraverso attività di movimento mirate , ad affrontare la disabiltà fisica ) , l’Arte – terapia , ecc… sono tecniche che hanno dimostrato un’efficacia sorprendente nel migliorare la situazione clinica e di vita del malato di Alzheimer .

Le esperienze che viviamo ogni giorno con i nostri malati e con le loro famiglie , sono un patrimonio prezioso da non perdere . Se le cose oggi vanno meglio rispetto a quindici anni addietro , il merito sta soprattutto nel tentativo continuo di migliorare la condizione del malato , che ci si propone da più parti all’interno dei centri U.V.A. e delle associazioni Alzheimer che sono nate nel tempo ; ma non ultimo grazie alle esperienze dei familiari che con le loro testimonianze ci danno , giorno dopo giorno , la dimensione reale della problematica che vivono insieme al malato .

L’ Alzheimer compie oggi 100 anni ! è nostro interesse ,come operatori che vivono insieme alle persone affette da questa drammatica e per certi versi “ bizzarra “ malattia , chiedere a gran voce aiuto , collaborazione e disponibilità : agli Enti e alle Istituzioni tutte , alle Aziende , ai personaggi “ che contano “ , e soprattutto ai numerosissimi cittadini che sanno cosa vuol dire Alzheimer .

Il malato di Alzheimer ha ancora estremo bisogno di sostegno , di partecipazione . Il dramma principale che attanaglia questi malati è la solitudine . E’ una malattia che non permette alcun tipo di contatto né affettivo né sociale . L’ Alzheimer rompe ogni tipo di legame . Questo malato è una persona deprivata della sua memoria ,dei suoi ricordi , del suo passato , della sua storia , dei suoi affetti più cari ; è una persona che non riesce a pensare , a comunicare , a programmare la propria vita . E’ una persona il cui passato è oscuro e il futuro lo è ancor più .

Non dimentichiamo chi dimentica !

Centro U.V.A.

ASL n. 8 di Siracusa

i disturbi alimentari oggi. di Francesca Cianci

I DISTURBI ALIMENTARI OGGI: UN’EPIDEMIA DEI NOSTRI TEMPI

E’ certo che le patologie legate all’alimentazione, anoressie e bulimie, sono oggi ovvia conseguenza di un periodo di indiscusso “benessere socio-economico” se guardiamo agli ultimi decenni in relazione al periodo della penuria e dell’insicurezza alimentare che ha tormentato gran parte dell’ umanità per interi secoli. Ancor oggi una moltitudine di popolazioni vive in uno stato di denutrizione, ma di contro almeno un miliardo di persone obese popolano la terra, e un’altra grande fetta di tale popolazione è affetta dall’idolatria della magrezza femminile. Nelle società industriali più avanzate sono molte le donne che si dedicano con eccessiva preoccupazione al controllo del peso e dell’immagine del corpo, attraverso diete drastiche ed esercizi fisici estenuanti. L’attenzione della medicina per il soprappeso è un fatto relativamente recente; l’interesse per l’obesità come condizione patologica è nato circa nel novecento; è successo però che le valutazioni mediche e le ricerche scientifiche, nel tempo, si sono intrecciate con il nascere di ideali estetici e di modelli imposti dai mezzi di comunicazione di massa che sono entrati nelle nostre case in modo così tanto invasivo da sconvolgere le nostre coscienze in maniera sottile e continua. Ne consegue che in relazione a stereotipi estetici legati alla moda, un numero sempre più elevato di persone, specie donne, ritengono di essere soprappeso senza esserlo realmente e intraprendono diete dimagranti nocive nel tentativo di risolvere insoddisfazioni, conflitti, disagi di varia natura, creando con il proprio corpo e con la propria immagine esteriore un rapporto ossessivo e disarmonico. Emerge dunque nel tempo una patologia, purtroppo oggi assai diffusa e in continuo aumento: l’anoressia. E’ facile comprendere a questo punto che il comportamento anoressico rappresenta verosimilmente una serie di disagi e di disturbi che molto ha a che fare con problematiche depressive di fondo, o comunque con disfunzioni di tipo psicologico. Perché alcune donne più di altre si ammalano di anoressia? È da dire che intervengono diversi fattori, individuali, familiari e culturali; è certo però che sono più soggetti al rischio di malattia le persone con tratti ossessivi, con aspettative esasperate, con insoddisfazioni perenni, con personalità infantile e dunque con grande difficoltà ad elaborare il processo di separazione dalle figure genitoriali, con scarso controllo degli impulsi, scarsa tolleranza delle frustrazioni, con sessualità disordinata e scarsa libido, con eccessiva dipendenza dall’immagine sociale e dunque estetica. A tutto questo si possono intrecciare eventi traumatici, separazioni o lutti, malattie gravi, accadimenti che minacciano in qualche modo la stima di sé. La reazione alla paura di perdere il controllo e dunque la stima di sé è un’eccessiva concentrazione sul corpo e di conseguenza l’autoimposizione di un’eccessiva disciplina, come segno di capacità di autocontrollo. A questo punto scatta la malattia. All’anoressia, fa seguito solitamente la bulimia( che è il momento di trasgressione e di gratificazione che si alterna alla deprivazione alimentare e a cui in genere segue l’atto del vomitare, come punizione per aver mangiato), Anoressia e bulimia sono malattie gravi e pericolose, che mettono a serio rischio la salute fisica e mentale delle persone che ne sono affette. I metodi di cura che vengono proposti sono sempre da collocarsi in ambito psicoterapico, anche se spesso nei casi più gravi occorre il ricovero in una struttura adeguata. E’ da osservare in ogni caso che la terapia si basa su una relazione psicologica chiara, leale e affidabile, tra il terapeuta e il soggetto, all’interno di un rapporto di collaborazione e di fiducia anche con i membri della famiglia a cui appartiene la persona in questione. E’ necessario ricordare infine che tale tipo di patologia rappresenta solitamente un conflitto di base: la ricerca di un’autonomia totale da una parte e il desiderio di dipendenza e di ritorno all’infanzia, dall’altra.

lunedì 12 ottobre 2009

la depressione. di Francesca Cianci

LA DEPRESSIONE: CONOSCERLA PER AFFRONTARLA.

Parlare di depressione spesso non è semplice neanche per gli "addetti ai lavori". Molto è stato discusso attorno all'argomento. La mia intenzione non è quella di descrivere la depressione tanto da un punto di vista clinico-scientifico quanto affrontare il tema da un punto di vista più strettamente umano; questo aspetto è forse in un certo senso ancora troppo poco conosciuto. E' da dire che la depressione in senso generico equivale a dolore, ad un vuoto e ad un disagio incolmabile e non facilmente descrivibile né da chi ne è affetto, tantomeno da chi sta accanto ad una persona depressa. Mi accingo a descrivere solo genericamente tale condizione nel tentativo di far conoscere i sintomi e le caratteristiche principali per avere la possibilità di riconoscerla e poterla affrontare nel modo più adeguato. Spesso si parla di depressione in modo improprio e oggi più che mai questo termine risulta inflazionato. Frequentemente sentiamo dire o diciamo noi stessi: "oggi mi sento depresso". La depressione non riguarda chi, per un motivo qualsiasi,si senta di malumore o un po’ scoraggiato. E' uno stato che comporta una condizione patologica, di seria malinconia, con caratteristiche precise e per poter parlare di depressione occorre che questo stato mentale di "forte disagio" duri almeno oltre le 2 o 3 settimane in modo persistente. Sostanzialmente la depressione è un "disturbo del tono dell'umore" più o meno intenso. Solitamente tutti noi siamo soggetti a variazioni dell'umore dovute a fattori vari: stanchezza, contrarietà, stress, frustrazioni varie, condizioni ormonali per la donna, ecc…, ma questi cambiamenti umorali normalmente non durano più di qualche ora o al massimo qualche giorno; e in ogni caso il nostro cervello continua a funzionare più o meno come sempre, ovvero questa condizione è transitoria e non risulta invalidante. Fin qui dunque non siamo nell'area patologica. Diversamente, la vera depressione non dura qualche giorno ed è uno stato di "malinconia" molto marcato; soprattutto non è direttamente legato alle circostanze cui si è accennato finora. La depressione vera è intesa proprio come "disturbo psichico", quindi è da considerarsi in un certo senso come uno scompenso emotivo e mentale, e conseguente non ad una ma a più cause concomitanti. Va considerato peraltro che in questa patologia la predisposizione ereditaria ha un peso consistente, anche se questo aspetto può non rappresentarne la causa determinante; può avere però una valenza nel gioco degli intrecci con altri fattori che si sono presentati nel corso della vita della persona affetta da questo male (lutti, infanzia difficile, malattie, difficoltà varie, ecc…). Un criterio per riconoscere una depressione patologica è dunque il prolungarsi dell'umore malinconico, anche quando tale umore possa essere stato causato da eventi forti quale un lutto. Se il sentimento di reazione, inizialmente adeguato, diventa eccessivo nel tempo, siamo in presenza di una vera depressione,

Nella depressione patologica, per intenderci, c'è sempre qualcosa di sproporzionato, di eccessivo, dunque: o una malinconia eccessiva, o troppo protratta nel tempo, o troppo marcata rispetto agli eventi di cui può anche essere conseguenza, o addirittura ingiustificata rispetto alle cause apparenti.

Successivamente mi occuperò di approfondire le caratteristiche più evidenti.

1^ puntata

Dott.ssa Francesca Cianci

Psicologa - Psicoterapeuta

fracianci@alice.it

LA DEPRESSIONE "PATOLOGICA"

Ho già precedentemente tentato di delineare un quadro generico sottolineando la differenza tra uno stato d'animo depressivo transitorio e quella che invece si può definire "depressione patologica". E' necessario ripetere che la persona depressa si trova in uno stato d'animo diverso da chi è momentaneamente "afflitto" da malinconia o da uno stato di disagio emotivo momentaneo. La persona depressa solitamente ha la sensazione di trovarsi dentro un tunnel buio; è priva di desideri; non prova piacere in nessuna delle cose che magari faceva precedentemente al sorgere di questo stato; non prova interesse tantomeno gioia in nessuna circostanza; non ha la capacità né vede alcun motivo per cercare di reagire alla condizione di "cupezza"; non vede spiraglio alcuno, né prospettiva di miglioramento; sente questo stato come perenne e definitivo; si sente in colpa per qualunque cosa e vive tale disagio come un "giusta punizione"; non si sente malata ma, al contrario, crede di essere realmente colpevole per qualche strano motivo; non si sente degna di vivere; si considera incapace e nettamente inferiore agli altri; ritiene che il mondo sia cattivo e che nessuno può capire il suo stato; ha un atteggiamento di sfiducia, di indifferenza e di distacco nei confronti del mondo intero. La persona depressa è impregnata di sofferenza e di dolore, ed è convinto che nessuno possa aiutarla. Di conseguenza molte persone affette da depressione sono spinte a gesti estremi perché percepiscono l'ineluttabilità di tale condizione. A questi stati d'animo si accompagnano spesso sintomi più specificatamente fisici e comportamenti conseguenziali: insonnia, difficoltà nell'addormentamento, risveglio precoce, inappetenza o appetito smodato, senso di stanchezza e di affaticamento eccessivo, lentezza nei discorsi e nei movimenti, chiusura e tendenza all'isolamento, perdita del desiderio sessuale; spesso è associata anche una componente d'ansia. Solitamente il momento peggiore della giornata è il risveglio, mentre ci si sente leggermente più sollevati durante le ore serali. Tutto questo rende la depressione una condizione veramente dura da sopportare ed estremamente angosciante anche per che vive accanto ad una persona depressa. Nella maggio parte dei casi la sintomatologia depressiva si manifesta a cicli. Compare durante un periodo di tempo, poi si attenua fino anche a scomparire per poi ricomparire a distanza di mesi o anche anni; quando si ripresenta generalmente non vi è alcun motivo apparente, anzi il più delle volte compare nei momenti di maggiore tranquillità e benessere.Esistono anche forme di depressioni più lievi ma prolungate nel tempo; si tratta delle cosiddette "distimie". In questi casi la persona manifesta tutto quello che si è finora descritto ma in forma più attenuata e in genere questi sintomi non conducono ad una vera e propria invalidità però la persona che ne soffre risulta affaticata, pessimista, scontrosa e "sempre di malumore"; è la classica persona che fa fatica a vivere.

In un fase successiva tenterò di raccontare il peso e la valenza che assume oggi il fenomeno della depressione e le possibili modalità per accedere ad adeguate risoluzioni terapeutiche.

L'obiettivo che ci si prefigge è quello di far conoscere, anche se in modo generico, i sintomi che possano portare, sia la persona affetta che i familiari, a riconoscere una malattia che se si ha la possibilità di individuare in tempo, si può oggi affrontare e gestire adeguatamente, riducendo di gran lunga i rischi di gesti estremi nel peggiore dei casi, e salvaguardando comunque una buona qualità di vita.

2^ puntata

Dott.ssa Francesca Cianci

Psicologa - psicoterapeuta

fracianci@alice.it

LA DEPRESSIONE OGGI

E' inquietante assistere oggi al fatto che una società sempre più industrializzata e avanzata come la nostra, produca sempre più individui depressi; più il cosiddetto "progresso" va avanti velocemente, freneticamente, più il disagio della gente diventa crescente. Oggi la realtà esterna è davvero assai poco rassicurante; di continuo assistiamo ad immagini catastrofiche, di guerra, di distruzione, di minacce e pericoli incombenti. Tali messaggi e tali immagini in un modo o nell'altro penetrano nella nostra vita mentale e si fanno strada trasmettendoci in qualche modo un sottile sentimento di angoscia, di impotenza, di rischio ormai cronico. Negli ultimi tempi questi messaggi sono diventati così ricorrenti che non li notiamo neanche più; entrano nella nostra vita inconscia in modo più o meno automatico. Apprendiamo troppo frequentemente di morti strazianti, di violenze senza limiti e l'istintiva "naturalezza" con cui ci troviamo a reagire è indicativa di una svalutazione della gravità dei fenomeni che automaticamente però danneggia un sanno funzionamento emotivo all'interno di ognuno di noi; tutto questo, in breve, agisce dentro la nostra mente e nel nostro inconscio e viene a creare quasi una cappa depressiva collettiva di cui spesso il singolo individuo non se ne rende conto. Non è difficile dunque fin qui, comprendere che i sentimenti depressivi provengono in gran parte anche dal rapporto con la realtà esterna e dunque oggi vanno sempre più diffondendosi. Per quanto riguarda le modalità di cura della depressione, bisogna ricordare che se il quadro clinico viene affrontato in tempo, le possibilità di guarigione aumentano. In tempo vuol dire prima che i sintomi abbiano la possibilità di strutturarsi e in un certo senso di cronicizzarsi. Oggi nella quasi totalità dei casi un trattamento terapeutico adeguato permette alla persona depressa di ritornare ad avere un buon equilibrio mentale ed emotivo e una buona qualità di vita.. Con le cure oggi disponibili anche un depresso grave può vedere scomparire i propri sintomi e tornare a condurre una vita normale. Il motivo principale per cui le persone depresse non vengono adeguatamente curate, consiste nel fatto che la depressione spesso ancor oggi non viene riconosciuta né a volte considerata come malattia. Spesso viene percepita più come un disagio di tipo "morale" o esistenziale, che come un disturbo clinico, ancor più quando la persona depressa ragiona bene, cioè "funziona" in modo corretto: Di conseguenza non vengono ricercati né farmaci né strumenti di cura; sia i familiari che la persona stessa, preferiscono parlare di "stress, o di "esaurimento", o collegare il fenomeno depressivo a qualche evento che ne possa essere stata la causa( una separazione, un lutto, un fallimento lavorativo, un grosso dispiacere, ecc...)... intanto il processo depressivo fa il suo percorso e serpeggia in modo subdolo e sottile, finchè non si presenteranno episodi più eclatanti. Questa svalutazione dei sintomi non permette di arginare in tempo il processo di cui si parla.. Dunque occorre innanzitutto sapere che si tratta di una vera e propria malattia in cui si intrecciano componenti organiche, biochimiche, e vissuti psicologici. Conviene pertanto consultare uno specialista con una buona esperienza che possa guidare la persona depressa attraverso un percorso che, nella maggior parte dei casi, necessita di cure farmacologiche. Molto spesso è opportuno associare ai farmaci una buona psicoterapia; uno psicoterapeuta esperto di disturbi depressivi saprà accogliere il soggetto depresso e stabilire con lui un rapporto di empatica fiducia, offrendo alla persona gli strumenti utili perché possa riuscire ad affrontare la propria quotidianità e ritrovare una buona qualità di vita da sostituire alla triste sopravvivenza del depresso

3^ puntata

Dott.ssa Francesca Cianci

Psicologa-Psicoterapeuta

I nostri bambini:uomini e donne del domani. di Fancesca Cianci

I NOSTRI BAMBINI : UOMINI E DONNE DEL DOMANI.

Conseguentemente ai quasi quotidiani episodi di violenza nelle scuole, di bullismo, di storie penose che evidenziano sempre più massicciamente il degrado verso cui stiamo pesantemente scivolando, si assiste ultimamente ad una specie di “stato di allerta” da parte di associazioni, enti, alcune scuole, quelle più sensibili… quasi come uno stato di emergenza che rivela una sorta di preoccupazione generale.

E’ tipico dei meccanismi da fenomeno. Allo stato attuale quasi ogni giorno leggiamo fatti riguardanti episodi di bullismo o di violenza con relativi commenti, inchieste, opinioni del giorno dopo; scendono in campo pensatori e filosofi, psicologi ed esperti vari. Andrà avanti ancora per un po’, poi cadrà tutto nel perenne desolante silenzio di sempre.

Occorre “approfittare” del momento di “passionalità” per creare nelle scuole un tipo di organizzazione nuova, che miri a “creare una mentalità”, a cambiare cioè le vecchie abitudini per sostituirle con nuovi sistemi e metodologie a cui si spera, con il passar del tempo, ci si possa abituare.

Le abitudini, nel tempo, creano un “mentalità”, e allora che le scuole si allertino in maniera operativa, oltre che denunciare sgomento e preoccupazione! Come? Comincino i dirigenti scolastici ad istituire presso i propri istituti corsi formativi, gestiti da personale competente, rivolti ai docenti e al personale Ata, agli studenti e alle famiglie. Comincino a creare spazi aperti agli alunni, agli insegnanti e ai genitori(i cosiddetti sportelli), dove tutti possano accedere per ricevere strumenti adeguati e creare così una rete di contati aperti, a supporto di qualsiasi difficoltà o esigenza di chiunque. Comincino a porre le basi per sensibilizzare gli studenti, insieme alle famiglie, a partire dalle scuole elementari, al fine di riuscire a parlare un linguaggio comune, all’interno delle diverse realtà.

Fino a quando la scuola resterà un’istituzione chiusa, volta solo ad impartire nozioni, i nostri bambini continueranno a vivere realtà scisse e frantumate, gli insegnanti da una parte, le famiglie dall’altra, il più delle volte gli uni contro gli altri.

Bisogna demolire la mentalità secondo cui i genitori e gli insegnanti si incontrano solo due volte l’anno, durante l’orario di ricevimento, o sulle scale,velocemente, per carpire al volo qualche confidenza del professore.

Non è una favola, può diventare realtà.

Francesca Cianci Psicologa-psicoterapeuta.

Quando il precariato diventa malattia sociale. di Francesca Cianci

IN PIAZZA LA RABBIA DEI PRECARI: QUANDO IL PRECARIATO DIVENTA MALATTIA PSICOSOCIALE.

Operai, medici, ingegneri, geometri, infermieri, ricercatori, docenti… non esistono oggi categorie prioritarie nei confronti del precariato, tranne forse quelle figure che precarie lo sono state sempre, indipendentemente dalle crisi sociali e finanziarie più o meno drammatiche( sociologi, psicologi, antropologi, pedagogisti,…) per l’atavica difficoltà d’inserimento in contesti o in organici che in Italia non hanno mai avuto grande espressione da un punto di vista lavorativo.

I tagli alla sanità sono ormai devastanti, i servizi sono tutti più o meno massacrati, le strutture sociali in molte zone, specie al sud, stanno quasi sparendo anche per assenza di personale, per gli accertamenti sanitari si aspettano anni.

I precari attuali, è ormai ampiamente accertato, soffrono quasi tutti di ansie, insicurezze, frustrazioni e forme depressive con somatizzazione. Gli studenti universitari si avviano verso queste forme di disturbi, ben consci dell’incertezza del futuro che li aspetta. I giovani che preferiscono lavorare anzicchè studiare, sono anch’essi a rischio, per la nota realtà di disoccupazione in cui sono immersi… stipendi da fame, qualifiche incerte, competenze confuse rispetto ai ruoli, impossibilità di programmazione del proprio futuro, professioni instabili… Tutto questo provoca conseguenze davvero devastanti e sempre più diffuse sulla salute del corpo e della mente.

Come si può pretendere una serenità di fondo o un equilibrio esistenziale quando non si può accedere ad un mutuo, quando non si può pagare una casa d’affitto, quando non si può comprare un’automobile neanche a rate, quando non ci si può permettere un’assistenza sanitaria adeguata che salvaguardi noi stessi e i nostri figli?!

Peraltro sia la dimensione del lavoro flessibile, con i suoi tempi elastici, sia un sistema lavorativo organizzato secondo orari rigidi, sono entrambe condizioni che inevitabilmente generano fenomeni stressogeni. E’ accertato che la realizzazione di se stessi passa attraverso la dimensione lavorativa che di conseguenza contribuisce a creare un’identità più o meno stabile ed equilibrata. Il senso di oppressione e di ansia causati da un lavoro precario possono condurre, per esempio, ad una forma di isolamento con conseguenze di ulteriore riduzione delle possibilità relazionali e lavorative. Se ci si sente scoraggiati e con una prospettiva di domani incerto, si tende a mettere in discussione le proprie capacità generiche, con conseguenti sensi di colpa per i propri insuccessi lavorativi( autosvalutazione e autodisistima). Ancora, il continuo passaggio da un lavoro ad un altro, o da un ruolo ad un altro, tende a destabilizzare il proprio equilibrio, con la conseguente messa in discussione delle proprie competenze. L’irregolarità e i ritardi dei pagamenti generano ansia con possibile somatizzazione, a causa dell’impossibilità di pianificare la propria vita nel lungo tempo. Scarsi riconoscimenti di merito( laureati che lavorano nei call center…), perdita di motivazione, specie per chi è qualificato, dotato di buone competenze e potenzialmente dunque una buona risorsa… anche questo genera frustrazione e malessere. Di contro si aggiunge che ai precari, giovani e inesperti, vengono spesso affidate mansioni rischiose senza formazione adeguata o il necessario tutoraggio.

Questo e altro ancora comporta un’enorme fatica emotiva e notevoli presupposti per una disfunzionalità a livello relazionale. Il precariato oggi è una delle cause più diffuse di malessere sociale e di patologie più o meno importanti. Oggi si assiste alla curiosa paradossale situazione che la gente si ritrova più preoccupata di trovare o mantenere un posto di lavoro piuttosto che di tutelare la propria salute. Tra le corsie di ospedale si assiste sempre più ad un paradosso: i pazienti, lavoratori precari, malati, sono “curati” da sanitari altrettanto precari, stressati, instabili.

La vita del precario ha assunto oggi la forma di una vera e propria identità e si intravede il serio rischio che, continuando in tal senso, le personalità possano “corrodersi”. I giovani sono intrappolati in questo limbo. Anche le coppie, in questo contesto e a queste condizioni, diventano sempre più a rischio e spesso vanno in frantumi a causa di tutto quanto appena detto.

I rischi più diffusi sono: l’angoscia che, se protratta per lungo tempo, può sfociare in depressione; lo sconvolgimento dei ritmi biologici e del sonno può creare nel tempo problemi cardiovascolari e ipertensione.

Potrei continuare a lungo ma rischierei di essere eccessivamente prolissa. In definitiva certo è che questo stato di cose sta devastando le persone, le famiglie, i figli, gli adolescenti, gli universitari, i disoccupati, il paese intero… Che lo Stato se ne faccia carico!… ma avere quest’aspettativa può diventare oggi causa di ulteriore frustrazione!

Francesca Cianci

La scuola. di Francesca Cianci

LA SCUOLA: I BAMBINI, “OGGETTI” DI RIFORME

E’ veramente un universo fragile, frammentario e disordinato, quello in cui si muovono oggi i nostri bambini. La contraddizione di fondo è una: in teoria oggi più di ieri si hanno a disposizione maggiori e migliori strumenti per guardare ai bambini e per far sì che le loro potenzialità si sviluppino in modo ottimale; di conseguenza oggi la “quantità” di nozioni e di informazioni di cui disponiamo dovrebbe permettere di evitare gli errori grossolani che un tempo creavano ostacoli imponenti alla crescita e alla formazione sana di bambini e adolescenti, specie in ambito scolastico, territorio in cui si manifestano prevalentemente i loro disagi. Oggi si ha la pretesa di elevare le menti, di stimolare le capacità, di creare reti aperte di collaborazione, si cercano ossessivamente figure specialistiche di sostegno e di riferimento. E’ da dire però che assieme ai programmi “di eccellenza” e ai tentativi di perfezionamento nelle varie aree, offriamo ai bambini di continuo messaggi di precarietà e di incertezza che di certo non giovano a solidificare la loro crescita. La comunicazione attorno a loro è sempre più frettolosa, frammentaria, incompleta, a volte anche anaffettiva. I bambini si trincerano dentro un mondo costellato da computer, playstation, cellulari, chat; adoperano un linguaggio tecnicistico dentro un mondo che gli adulti non hanno la possibilità né la voglia di condividere, si circondano di tutto ciò che possa loro servire ad estraniarsi e a non partecipare alla loro stessa vita… è un autismo collettivo! Quello che in realtà riusciamo ad offrire ai nostri bambini è una moltitudine di stimoli e di nozioni dentro un gigantesco universo di solitudine. Si è preoccupati di fornire una formazione tecnicistica e impersonale più che una effettiva vicinanza che permetterebbe loro di crescere più solidi. A scuola il discorso non cambia: i docenti, spesso genitori anch’essi, vivono un disagio anche doppio: quello di genitori e quello di coloro ai quali spetta il compito della formazione dei bambini, adulti di domani. Ma l’incubo dell’avanzamento tecnicistico domina su qualunque altro tipo di bisogno. Che certezze possono dare ai nostri ragazzi i docenti impregnati essi stessi d’incertezza e precarietà? Che spazio e che tempo è previsto nelle scuole per le relazioni umane tra allievi e docenti? Un anno tre maestre, l’anno successivo il maestro unico, un anno abolito il grembiulino, l’anno dopo nuovamente il grembiulino, un anno i giudizi, l’anno dopo i voti… oggi l’illustre ministro Gelmini preferisce porre l’attenzione sul voto in condotta permettendosi di tagliare risorse fondamentali come gli insegnanti di sostegno e togliendo alla scuola la possibilità di creare spazi fondamentali come i laboratori, contesti importantissimi ai fini della relazione tra insegnanti e alunni… come si può pensare che i bambini sviluppino una personalità sana e solida tra questa serie interminabile di incertezze e contraddizioni, circondati da normative che cambiano di continuo, a cui non fanno neanche in tempo ad abituarsi dato che l’anno successivo è già tutto diverso; le loro menti in formazione sono ingolfate di nozioni e di stimoli frenetici, le loro giovani personalità sono guidate da ritmi ansiogeni che neanche gli adulti riescono a metabolizzare. Gli insegnanti sono lasciati in balia di se stessi, costretti ad affrontare una molteplicità di problematiche senza che sussistano le condizioni primarie per poter operare in un clima sereno e sicuro… tutto questo è sconcertante e sconfortante, sia per chi deve educare e formare, compito non semplice già di per sé, sia per chi deve apprendere e assimilare, lungo un percorso che si fa sempre più complicato. Un luogo comune attuale è: i bambini oggi hanno troppo! Io ritengo al contrario che i bambini oggi abbiano veramente troppo poco.

Dott.ssa Francesca Cianci

Psicologa-psicoterapeuta

Molestie morali. di Francesca Cianci

MOLESTIE MORALI

Le violenze a cui intendo riferirmi oggi riguardano quel tipo di prigionia “raffinata” che non si nota all’esterno, che non va a finire sulle pagine di un giornale, che sta dietro i cosiddetti “matrimoni perfetti”. E’ una realtà assai comune, molto più diffusa di quanto si possa immaginare; si tratta di un tipo di violenza “invisibile”, di cui spesso neanche chi ne è prigioniero ha consapevolezza dei meccanismi che lo hanno reso vittima; è una realtà inquietante segnata da piccole ferocie quotidiane da parte di chi le agisce, da continui atteggiamenti svalutanti nei confronti di chi li subisce, da incomprensioni esasperate e croniche a tal punto da poter parlare di “equilibrio”(equilibrio malato, ovviamente), da conflitti continui. E’ una violenza che uccide ogni giorno, determinando uno stato di logoramento psichico che, in quanto prolungato, tende a minare alla base anche le personalità più solide. Questo tipo di condizione non emerge, “nessuno lo direbbe”, ma crea attorno a chi la vive un’atmosfera intrappolante e ansiogena, mettendo in moto un processo di lenta distruzione psicologica. Solitamente questo stato di cose si determina quasi esclusivamente all’interno del conteso familiare, tra le mura domestiche; sono violenze e soprusi che feriscono l’intima essenza della persona, che mortificano la dignità di chiunque ne sia vittima; sono sottili e continue aggressioni che nascono da relazioni distorte tra i coniugi, e dunque in seguito tale disfunzionalità viene a coinvolgere anche il rapporto tra coniugi e figli, e tende ad avviluppare l’intero nucleo familiare, avvelenando complessivamente l’atmosfera della famiglia stessa. Tali violenze sono caratterizzate fondamentalmente da una mancanza di libera espressione, dal timore del giudizio dell’altro, da comportamenti sgarbati e arroganti, da un senso di svalutazione messo in atto dal coniuge “aggressore”, fondamentalmente da una marcata incapacità di relazionare empaticamente.

La caratteristica fondamentale di questo tipo di “aggressioni” è proprio l’invisibilità; è difficile portare alla luce il disordine emotivo che si crea nell’ambito domestico perché è difficile tracciare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Alla base di questo intreccio disfunzionale sostanzialmente c’è una grande povertà affettiva che conduce a manipolare in modo sottile e continuo e ad iniettare quotidianamente gocce di veleno a piccole dosi. Solitamente succede peraltro che di frequente o anche sporadicamente la collericità che di norma rimane latente e “controllata” esplode in episodi di ira e con manifestazioni aggressive più evidenti, passate le quali, si ritorna all’ “equilibrio” perverso” di sempre. Sono atteggiamenti e comportamenti che spesso inconsapevolmente mirano alla “distruzione morale” dell’altro, con cui si mantiene uno stato di competizione, e nei confronti del quale di solito il coniuge “colpevole” vive una sorta di complesso d’inferiorità. I comportamenti che più caratterizzano questi tipi di violenza sono: minacce verbali, sguardi e gesti aggressivi, sarcasmo, atteggiamenti sprezzanti, derisione, chiusura, svalutazione e colpevolizzazione. Questi tipi di legami in genere lasciano danni irreversibili e condizionamenti per tutta la vita; la loro pericolosità tende ad essere sottovalutata dai coniugi stessi proprio perché difficilmente si ha consapevolezza della gravità della condizione emotiva “intrappolante”, si tende addirittura a salvaguardare il tipo di equilibrio che nel tempo si è via via strutturato, con atteggiamenti del tipo “lui è fatto così… però è buono” oppure “in giro c’è di peggio…” (in riferimento alle situazioni più evidenti). In quanto “violenza invisibile” questo fenomeno comporta un certo grado di “pericolosità” a più livelli; potrebbe per esempio essere causa di forme depressive per chi subisce, o potrebbero verificarsi esplosioni più o meno gravi della collericità latente, provocando di conseguenza eventi anche drammatici che “nessuno si sarebbe mai aspettato”.

Francesca Cianci

Psicologa-psicoterapeuta

Il triste ritorno all'Italia. di Francesca Ciaci

IL TRISTE RITORNO ALL’ITALIA!

All’emozione intima e collettiva dei giorni caldi di Obama, ecco seguire immediatamente e bruscamente il ritorno alla “normalità italiana”. Con il cuore molti italiani hanno sperato, sognato, fantasticato, che una magia come quella che si è verificata in America, potesse accadere anche da noi. Ma l’America è l’America e l’Italia è l’Italia! Che triste rientro alla realtà di sempre! Allo squallore, alla volgarità, all’ambiguità, allo sconcerto a cui ci ha abituati da tempo il nostro cavaliere, dai folti capelli, dai denti perfetti, e sicuramente poco “abbronzato”! abbiamo assaporato la grandiosità di questo evento americano, di questo personaggio fuori dalle righe, con questa storia speciale e singolare alle spalle… è stato un po’ come vivere una fiaba! Ma ecco che la realtà italiana al risveglio, ci dà il suo buongiorno di sempre: piccina, mediocre, interessi subdoli e sporchi, millanterie camuffate da umorismi vacui e volgari. Serpeggia nell’atmosfera un alone di amarezza, di sconforto, e quel che è peggio forse, di rassegnazione…rassegnazione ad essere governati da gente piccina piccina, rassegnazione a vedere il proprio futuro e quello dei nostri figli nelle mani di gente che ha il potere di manipolarlo, rassegnazione anche ad assistere ad un’opposizione mediocre che segue le fila del “botta e risposta”, che non riesce a distinguersi, a volare, un’opposizione depressa: La vita degli italiani scorre tra lo sgomento, l’incertezza, la rabbia, la delusione continua data dall’alternarsi di governi che restano comunque imprigionati nel solito tran tran di schemi gretti e preconfezionati, incapaci di idee innovative, incapaci di programmi che siano in grado di salvare questo paese avvilito e tormentato… e l’opposizione sempre a proporre manifestazioni, slogan, carnevali… e non cambia mai niente… e continuiamo ad assistere a queste performance devastanti, tra caroselli di battute volgari e risposte sterili, mentre la nostra vita si consuma tristemente tra uno stento e l’altro, tra la rabbia per i tagli alla scuola, tra i rifiuti che sommergono le città, tra le donne che ancora muoiono nella sale parto mal gestite, tra i salotti di porta a porta, i personaggismi alla Travaglio, tra i tagli alla ricerca e alla sanità, tra gli “umorismi” idioti di Berlusconi… nella consapevolezza che all’Italia non spetterà mai una scintilla di magia come quella che è toccata all’America… . Sono riusciti a toglierci anche la voglia di sperare! E per chi ha ancora il coraggio di amare la propria terra è veramente dura, per chi invece si è visto distruggere anche quel briciolo di amor patrio, non resta forse che… emigrare in America!

Francesca Cianci

psicologa

Pedofilia oggi. di Francesca Cianci

LA PEDOFILIA OGGI: DIFENDIAMO I NOSTRI BAMBINI

Non intendo annoiare chi legge con la solita storiella sui pedofili, chi sono, perché lo sono diventati, qual è la loro struttura di personalità e quali traumi hanno subito durante la loro infanzia.Molto è stato già detto e discusso sul fenomeno. La mia intenzione è piuttosto quella di cercare di delineare un profilo generico della situazione-pedofilia allo stato attuale, al fine soprattutto di fornire una chiave di lettura “pratica” a genitori e adulti in genere, in modo da salvaguardare e proteggere i bambini da tale rischio. Il pericolo maggiore per i bambini non è rappresentato dal vecchio bavoso nascosto in posti impensabili, o dal signore sconosciuto che gentilmente offre loro la caramella all’uscita da scuola; può sembrare strano ma il rischio più frequente si trova nell’ambito familiare, proprio tra i componenti della famiglia, spesso tra parenti “insospettabili” che conoscono bene e frequentano l’ambiente in cui vive il bambino. Solitamente i bambini sono abituati a diffidare di chi non conoscono;al contrario si fidano di chi conoscono: gli amici dei genitori, i parenti affezionati e rispettati all’interno della famiglia, che spesso sono anche persone rispettabili all’interno della società più allargata, gli insegnanti,i medici che ruotano attorno al nucleo familiare, gli istruttori sportivi ben conosciuti dai genitori, il sacerdote(perché no?!) a cui fa riferimento la famiglia, insegnanti di doposcuola,ecc… . Detto dunque che i pedofili sono persone assolutamente comuni e che cadere nella loro trappola è molto più facile di quanto si possa immaginare, il primo passo che ogni genitore ha il dovere di compiere nei confronti dei propri figli è quello di “prevenire” informando. Molto spesso gli adulti hanno una forma di pudore o di resistenza a parlare con i bambini di certi argomenti. Non c’è niente di più sano che informare il bambino di quello che succede nel mondo e attorno a lui. Ovviamente in modo adeguato e con modalità appropriate secondo l’età. I bambini spesso non sono in grado di riconoscere il pericolo, di distinguere quello che è bene da quello che è male, gesti innocenti da comportamenti perfidi e ambigui, affettuosità sane da affettuosità finalizzate; tenerli all’oscuro di rischi e pericoli è molto più pericoloso del pericolo stesso; occorre dunque metterli al corrente della realtà. Parlare con loro rappresenta uno strumento di fondamentale importanza, non usarlo è una forma di deprivazione, è un torto nei loro confronti. Come si spiega un fenomeno del genere proprio dentro il nucleo-famiglia, in un periodo storico in cui la continua modernizzazione della società dovrebbe produrre livelli di benessere sempre più alti, con aspettative di qualità di vita sempre più elevate? Il paradosso è che i continui rapidi cambiamenti a cui oggi andiamo incontro, introducono all’interno del sistema famiglia livelli di stress e di “velocità” tali da rendere lontane e difficoltose le relazioni interpersonali soprattutto tra genitori e figli. Figurarsi se c’è tempo per spiegare ai nostri figli come riconoscere le situazioni pericolose! Quando li vediamo i nostri figli, se per la maggior parte del tempo sono affidati a baby sitter, ad insegnanti privati, o nel migliore dei casi “piazzati” davanti a televisioni e computer, mentre noi ci occupiamo d’altro! Dunque ancora e sempre l’appello va alle famiglie. Lungi dall’adottare atteggiamenti di ossessiva diffidenza nei confronti di amici, parenti o punti di riferimento vari, cerchiamo comunque di avvicinarci di più ai nostri figli, di conoscerli nelle loro sfumature caratteriali, nei loro umori, nelle loro abitudini; impariamo ad ascoltare il loro linguaggio per avere poi la possibilità di saperlo usare quand’è il momento, avviciniamoci ai loro termini, alle loro espressioni per parlare con loro e farci sentire vicini, usiamo le fiabe con i più piccini, le metafore, per far capire loro quanto è sano e quanto non lo è, per abituarli a diffidare di chi vuole usarli e approfittare della loro innocenza e della loro “ignoranza” . Il conoscere è uno strumento che abbiamo il dovere di fornire ai nostri figli. In definitiva occorre realizzare che il pedofilo non è un mostro lontano da noi e da loro; togliamo al concetto di pedofilo l’etichetta che ce lo fa sentire distante dalla nostra vita. Chiunque molesta, disturba e infastidisce i nostri bambini è da tenere lontano e da considerare un pericolo per loro, che si chiami pedofilo o in qualsiasi altro modo!

Francesca Cianci

domenica 11 ottobre 2009

La chiesa stia al suo posto. di Francesca Cianci

La Chiesa stia al suo posto!

Famiglie allargate, divorzi, nuove convivenze, coppie di fatto… sono questioni e problematiche che certamente si prestano a molteplici chiavi di lettura ma è dato che ogni interpretazione indica un’etichetta, una posizione, una veste, sia essa laica o cattolica. Ritengo che una certa “obiettività” su tematiche così complesse, che si prestano a sfaccettature interpretative a più livelli, è da far passare attraverso un’analisi più “clinica” e insieme sociologica.

Per addentrarci in maniera più corretta all’interno di tali disquisizioni, al di là di qualsivoglia atteggiamento o credenza personale, non è possibile prescindere da una riflessione che consideri l’attuale struttura socioeconomica del nostro paese e la dimensione culturale che ne consegue.

E’ ovvio e fin troppo scontato che il Papa consideri le famiglie allargate uno dei peggiori mali che stà alla base della nostra società, in contrapposizione alla tradizionale famiglia cattolica; è altrettanto ovvio che i laici ridimensionino tale “tragedia” sfoderando gli aspetti più confortanti, elevandolo a tratti quasi a modelli di vita ottimale, tirando in ballo ipocrisie cattoliche e moralismi anacronistici. Credo che il vero non stia né da una parte né dall’altra.

Un’ interpretazione più adeguata deve tener conto di dati che prescindono da visioni cattoliche o laiche. Non è possibile “diagnosticare” e sentenziare secondo visioni personali che appartengono a posizioni globalmente “di parte”. I mali della società non sono attribuibili né alle famiglie allargate né ai nuclei di stampo tradizionale sanciti con il vincolo del matrimonio religioso.

La posizione del Papa peraltro non si limita ad interpretazioni di confronto, ma si spinge “come si conviene”, a lanciare moniti e a cercare di “persuadere” l’opinione pubblica!

Un dato di fatto obiettivo è per esempio che i bambini, indipendentemente dal contesto di vita a cui appartengono, necessitano di condizioni base perché si formi una struttura di personalità sana, equilibrata e solida, che abbia insite componenti rispondenti ad un adeguato sviluppo psicoemotivo, al fine di affrontare la vita con le inevitabili difficoltà che comporta, e con l’obiettivo di diventare persone sane. A tal fine i bambini e gli adolescenti in genere, hanno bisogno di ricevere messaggi sani, chiari e affettivi, hanno bisogno di fidarsi degli adulti che hanno attorno, siano essi inseriti in famiglie allargate, tradizionaliste o laiche, cattoliche o musulmane, o siano anche solo coppie di fatto. Detto questo, scivoliamo su un terreno più genericamente sociologico: la storia va avanti, che piaccia o no, non si può leggerla attentamente se non la si ripercorre a partire dal passato, la fuoriuscita delle donne dalle mura domestiche, la loro entrata nel mondo del lavoro, una maggiore sensibilizzazione e un’acquisita presa d’atto rispetto alle frustrazioni e alle antiche violenze sommerse e nascoste, hanno inevitabilmente modificato la struttura della società, i ruoli sono cambiati nel tempo, sia all’interno delle famiglie, sia all’interno di relazioni più globali; è cambiato di conseguenza anche il modo di porsi e le modalità di interazione circa i ruoli “istituzionalizzati”, vedi i docenti e tutte quelle figure che un tempo avevano in mano il potere incondizionato; i bambini oggi sono abituati fin dalla nascita ad avere attorno figure che non sono solo quelle genitoriali, il nucleo strutturale della famiglia ha cambiato immagine.

Non si tratta di evidenziare ipocrisie o difendere posizioni tradizionaliste che portano in un certo qual modo a “temere” i cambiamenti della storia; si tratta invece di prendere atto dei tempi che si evolvono e della trasformazione che questo comporta. Diversamente ci si impregna di demagogia, di conformismo cieco o di ribellione, di anarchia o di qualunquismo.

La psicologia, la neurologia, la sociologia, la pedagogia e altre discipline psicosociali, hanno fissato nel tempo alcune “verità” che è bene evidenziare all’interno di pareri e opinioni, tenendo conto, come si è già detto, che tali “punti cardini” devono essere adattati e messi in relazione ai ritmi e ai tempi della società in movimento.

In definitiva è possibile e lecito sperare che le menti clericali allarghino i loro orizzonti di pensiero e adottino di conseguenza atteggiamenti meno impositivi e meno arroganti? In alternativa siamo costretti a sorbirci moniti e sentenze all’interno di una cecità pericolosa che disconosce la storia!

Francesca Cianci

Ansia e autostima nel giovane. di Francesca Cianci

ANSIA E AUTOSTIMA NEL GIOVANE: LA PSICOTERAPIA, UNO STRUMENTO PER CONOSCERSI E PER CONOSCERE.

Le sindromi ansiose sono quasi sempre legate a problemi di autostima. Questo è ancor più vero nei giovani. Il meccanismo dell’autostima comincia a svilupparsi fin dalla nascita; se un figlio è stato voluto e accettato, è probabile che sarà anche apprezzato e stimato dai genitori che l’hanno desiderato, ed è probabile dunque che quel figlio crescerà più forte e più sicuro di sé rispetto ad un figlio che è stato maldigerito fin dalla nascita, o spesso anche prima. C’è un gran parlare su quanto oggi i giovani siano vuoti e privi di valori. Devo dire, a dispetto di questi luoghi comuni, che conosco tanti giovani più ricchi di valori e di sentimenti oggi rispetto a ieri. Il giovane che ha una buona stima di se stesso è certamente più protetto da se stesso, si muove più disinvoltamente nel mondo e tra la gente, e soprattutto è più abile nel far fronte alle avversità che gli si presentano. Il giovane che ha una buon autostima non ha paura di sentirsi escluso dal gruppo se non si comporta come gli altri; sa stare da solo senza “sentirsi solo”, non necessita di droghe o di comportamenti paradossali ed estremi per sentirsi qualcuno, perché sa di essere già qualcuno, non ha bisogno di continue conferme che glielo dimostrino.Il bisogno dello sballo e della trasgressione esasperata in definitiva altro non è che il desiderio di non essere se stessi, di uscire da una vita che non sentono propria, di estraniarsi dalla propria persona che non è gradita. Se il giovane si piacesse e fosse messo nelle condizioni di vivere una vita che gli piace, non avrebbe la necessità di cercare il pericolo e l’alienazione nei casi più gravi. In breve con lo sballo e con la trasgressione il giovane ricerca l’attenzione di cui è stato in qualche modo deprivato, richiede che si guardi a lui come quello che è, non come quello che vorremmo che fosse. Nell’uragano del mondo adolescenziale, il giovane chiede che non si cerchi di cambiarlo, che lo si aiuti ad essere quello che è; chiede di stare accanto a lui perché possa permettersi di piacersi e rafforzare dunque un valore che è il primo in assoluto, il valore del sé, il piacere della scoperta della vita, il coraggio di autocriticarsi e di mettersi in discussione. Senza una buona autostima è difficile non farsi prendere dall’angoscia o dallo svilimento davanti alle difficoltà o alle sfide che la vita propone. Il meccanismo dell’ansia in questo caso rappresenta un blocco emotivo, una disfunzionalità, un conflitto tra ciò che si vorrebbe essere o fare e l’incapacità di attuare questo bisogno. La psicoterapia infine è uno strumento attraverso il quale il giovane può riuscire a prendere coscienza di tutto questo e colmare dunque quelle carenze che lo hanno portato a sofferenza.

Francesca Cianci

domenica 4 ottobre 2009

Donne Persone. di Francesca Ciaci

DONNE PERSONE

Su “Unità” dal 12 agosto è aperto il dibattito circa “il silenzio delle donne”. Ancora oggi sul sito Internet del giornale il dibattito è sistematicamente arricchito da commenti, messaggi e analisi. Più volte ho avuto modo di scrivere in relazione a problematiche femminili e circa le modalità con cui viene espresso ancor oggi il tema della “discriminazione” nei confronti delle donne. Rimango convinta che, seppur ovvio che non bisogna tacere e che è necessario continuare ad alzare la voce nei confronti di tutto ciò che caratterizza la discriminazione femminile(e non solo), il rischio che si corre è quello di svilire e di alterare ossessivamente quella che è una diversità di mentalità e di modo d’essere che contraddistingue il mondo femminile da quello maschile. Mi riferisco alle modalità ossessive con cui “si festeggia” l’8 marzo, contribuendo a mercificare un significato storico che va al di là delle cenette tra donne, all’attenzione spasmodica verso ogni atteggiamento proveniente da qualsiasi tipo di elemento maschile, alla vulnerabilità eccessiva di molte categorie di donne ossessionate dal difendersi a priori da qualsiasi posizione che leggono non al femminile, storico che va al di là delle cenette tra donne, all’attenzione spasmodica verso ogni atteggiamento proveniente da qualsiasi tipo di elemento maschile, alla vulnerabilità eccessiva di molte categorie di donne ossessionate dal difendersi a priori da qualsiasi posizione che leggono non al femminile, agli atteggiamenti anacronistici e alle prese di posizione fuori luogo e fuori tempo. Tutto questo anzicchè evidenziare discriminazione, significa a mio parere, senso di inferiorità e insicurezza legata ad una non accettazione delle diversità… un sentirsi subalterne a tutti i costi! Il rischio è quello di raggiungere l’abolizione delle diversità, non della subalternità. Cosa diversa è evidenziare e lottare per il riconoscimento di legittimi diritti legali e civili. La mentalità che continua a portare alla subalternità non si combatte con le “quote rosa” , i “posteggi rosa”, il “telefono rosa”... Si legge, sull’”Unità” di domenica 27 settembre, di una ragazza che afferma di aver notato che quando gli uomini si rivolgono ad altri uomini, si parlano tra di loro, quando si rivolgono alle donne urlano e assumono un’espressione particolare… posso permettermi di pensare che all’interno di questi commenti ci sia qualche traccia di mania di persecuzione? Mi piace di più pensare che quando una donna raggiunge livelli di un certo spessore e arriva a ricoprire ruoli e posti di rilievo, quello che appare è certamente una maggiore ricchezza e una maggiore completezza rispetto ad un maschio “importante”. Attenzione donne, credo sia arrivato il momento di dare una sbirciatina più attenta all’elemento persona insieme a quello di donna o maschio, e di uscire da vecchi schemi che vogliono ancora e sempre la donna sofferente e bisognosa rispetto al maschio cui tutto è dovuto. Spero che questo mio pensiero non venga frainteso e che non susciti l’ira di qualche donna ancora particolarmente attaccata a stereotipi ormai vecchi e stantii.

Francesca Cianci

sabato 3 ottobre 2009

Eroi di Pace. di Francesca Cianci


Ci risiamo! L’aspetto mediatico fa ancora una volta la sua parte, alterando quella che è una realtà certamente meno romantica rispetto a quella che ci viene proposta davanti ad ogni tragedia, ma sicuramente più vera.

Ogni volta che assistiamo alle morti dei soldati italiani il ritornello è sempre uguale,le frasi identiche, le emozioni degli italiani sono “sentite”, “genuine”, “plateali”; figli affranti, mogli e madri dignitosamente addolorate, pagine e pagine di giornali dentro cui scorrono elaborazioni, commenti, approfondimenti della tematica in questione, descrizioni dettagliate circa le reazioni e i comportamenti dei figli dei soldati, articoli strappalacrime, programmi televisivi pronti ad intervistare sciacallescamente familiari e politici di turno… noi italiani del resto quando si tratta di manifestare solidarietà e di esternare emozionalità, siamo impareggiabili!

Mi rendo conto di toccare una questione assai delicata, devo stare attenta a non urtare la suscettibilità dell’Italia che soffre e dei politici in lutto! È imbarazzante elevare una voce che sa di controcorrente rispetto al sentimento collettivo di oggi.

Quello che stride a mio avviso è che tutta questa commovente scenografia viene riproposta sistematicamente, ad ogni morte, quasi come se fosse “imprevedibile”. E’ ovvio che la morte coglie sempre di sorpresa chiunque, anche quando da un certo punto di vista la si può prevedere, ma in queste particolari circostanze l’eco si fa più pesante, assume connotati che hanno il sapore dell’ingiustizia, della rabbia, quasi come se nel vissuto collettivo emergesse improvvisamente una inimmaginabile realtà: “non solo sono andati a mettere pace, per giunta sono morti!” l’equivoco di fondo stà proprio nel concetto di base: erano andati in guerra, non a mettere pace! L’Italia questa sfumatura non da poco. I soldati italiani vanno in territorio di guerra (peraltro in base ad un criterio di propria appartenenza, quello militare), non sono volontari della Croce Rossa; allora perché diventano “eroi”solo quando muoiono? E perché il Papa si dichiara “profondamente addolorato per il tragico attentato terroristico”? non sarebbe più logico addolorarsi profondamente al momento della partenza dei soldati, considerato che questi padri, figli e mariti si stanno avviando verso un contesto di guerra che comporta un rischio quantomai elevato? Vengono considerati eroi perché si recano in “missione di pace”! ma dov’è questa pace? Si mette pace con le armi in mano?!

L’Italia dimostra solidarietà e fraternità istituendo strade in memoria degli eroi e manifestando commozione davanti alle bare dei suoi caduti! Nelle varie città italiane sorgerà un’altra strada, “via caduti di Kabul”, in aggiunta a “via caduti di Nassiriya” e a “via Nicola Calidari”… e la Gelmini s’indigna e si scusa con le famiglie delle vittime perché le scuole non hanno osservato il minuto di silenzio! Nessuno s’indigna per le migliaia di persone che muoiono ogni giorno sui vari posti di lavoro che sono costretti a ricoprire per sopravvivere, senza alcuna garanzia né salvaguardia della loro vita. Questi “eroi” vanno a lavorare per vivere, non per vivere meglio, né per scelta ideologica.

Uno scoppio di sincera passione arriva da un uomo di circa sessant’anni che durante la liturgia esplode con un urlo…”pace subito”… prontamente afferrato e prontamente nascosto… ricomincia la preghiera, e poi il picchetto d’onore e gli stendardi, gli applausi e le frecce tricolore… tutto secondo copione! Uomini politici che s’inchinano e si battono il petto(dovrebbe essere un “mea culpa”?), tutti profondamente addolorati, qualcuno perfino piange! Bossi si rammarica: ero convinto che servisse, non li abbiamo certo mandati a morire”… ah no?! Davano forse la comunione ai combattenti? E laMeloni che inneggia l’unità nazionale… e La Russa che vanta la capacità affettiva dell’Italia nei confronti dei ragazzi con le stellette che “partono per tenere lontano il terrorismo da casa nostra”. Credo sia ora di farla finita con questa commedia all’italiana che sistematicamente diventa tragedia solo per chi ne resta coinvolto!

Francesca Cianci

LA PSICOTERAPIA “OMERTOSA”. di Francesca Cianci


Fa piacere apprendere che la psicologia come disciplina universitaria fa passi avanti, arricchendosi di nuove lauree specialistiche e avvalendosi di prestigiosi docenti a livello internazionale (è il caso dell’Università Kore di Enna). Le competenze si specializzano e si approfondiscono, i percorsi formativi vengono proposti attraverso metodologie e didattiche innovative e qualificate.

In qualità di psicologa e psicoterapeuta che vive ogni giorno a contatto con la realtà di chi è avvolto dentro svariate problematiche, patologie e disagi di ogni genere, sento l’esigenza di sollevare un disagio diverso, una sorta di “imbarazzo” che da sempre ha caratterizzato il mondo dei terapeuti e della psicologia in genere: l’”omertà” in relazione alle proprie sofferenze e al bisogno di “farsi aiutare”. In breve vorrei porre l’attenzione sulla mentalità dentro cui naviga la psicologia e la psicoterapia oggi.

Andare dallo psicologo purtroppo rappresenta ancor oggi una realtà da nascondere, un handicap che per molti significa fallimento, insicurezza,debolezza caratteriale, quando non addirittura malattia mentale.

Bisognerebbe che ci adoperassimo per abbattere questo muro che parla innanzitutto di ignoranza. Mi rendo conto che aleggia di fatto un’enorme confusione tra ruoli, discipline e competenze. Neurologia, psicologia e psichiatria sono scienze diverse e dunque con modalità d’approccio differente. Spesso mi sento dire da qualche paziente (e mi dispiaccio ancor più quando si tratta di persone in giovane età): “mi posso fidare? non voglio che si sappia che vengo da lei perché ho paura che mi prendono per pazzo”.

Sarà il caso di chiarire: la malattia mentale è cibo per gli psichiatri; tutte le sindromi di origine neurologica(dalle cefalee alle dolenzie varie, fino alle patologie più gravi compreso i tumori cerebrali o i traumi cranici, le ischemie cerebrali,ecc…) appartengono ai neurologi; agli psicologi e agli psicoterapeuti competono invece tutte quelle disfunzionalità che se anche si possono intrecciare con problematiche psichiatriche o neurologiche, fondamentalmente hanno alla base connotati di origine più prettamente psicoemotiva, in relazione anche ai vissuti di vita di ognuno ( si parla così di ansie, di forme depressive, di conflittualità e disfunzioni simili).

Detto questo sorge spontanea la meraviglia di fronte a frasi del tipo “posso farcela da solo” o “non voglio che si vengano a sapere i fatti miei”, come se l’avere qualche disagio o qualsiasi tipo di difficoltà esistenziale, comportasse una sorta di squalifica della propria identità ( o onnipotenza?!).

Mi chiedo: se si soffre di otite si pensa di poterla curare senza l’aiuto di un otorino? Se ci si rompe una gamba si va dall’ortopedico o ci si cura da soli? È come se nel momento in cui emerge un qualsivoglia problema in cui in qualche modo c’entri la volontà, la coscienza, o semplicemente il modo d’essere di ognuno, ci si sentisse intaccati nell’immagine di sé! Questo la dice lunga peraltro su tanti aspetti che di per sé sono già disfunzionali alla base, anche se chi ne è affetto spesso non ne è consapevole. Perché ci si vergogna di avere dei problemi emotivi e non ci si vergogna di avere un braccio rotto? Forse perché nel primo caso ci si sente in qualche modo responsabili o addirittura colpevoli in relazione a quel genere di problemi, mentre nel secondo caso si tratta di “fatalità”.

Questo aspetto “silenzioso” che circonda il mondo della psicoterapia è certamente legato ad un mondo ancora tristemente troppo impregnato di pregiudizi e contornato da una cultura che tende ad essere omologante e perbenista, una cultura che mira ancora troppo all’immagine più che al significato dell’essere vero.

Il cammino è ancora lungo, sconfiggere una mentalità in tal senso è cosa ardua; mi auguro che all’interno del pensiero dei colleghi psicologi e psicoterapeuti cominci ad insinuarsi la coscienza che ci porterà a trasmettere ai nostri pazienti e alla gente tutta che la psicoterapia non è necessariamente legata ad un concetto di “malattia”… piuttosto alla ricerca di un giusto significato di se stessi nel mondo!

lunedì 21 settembre 2009

COMUNICAZIONE COMPUTERIZZATA. di Francesca Cianci

Sempre più frequentemente nella mia pratica professionale m’imbatto in quelle che nel tempo ho definito “patologie da computer”. Disagi, equivoci, malintesi, rapporti fittizi e alterati che passano attraverso un linguaggio meccanico, asettico, standardizzato… un linguaggio che esclude i sorrisi, la mimica facciale, la gestualità, gli sguardi, elementi tanto potenti e fondamentali nello scambio interpersonale e nelle relazioni in genere, specie per quanto riguarda gli approcci iniziali.
Da quando è esplosa questa modalità di intrattenere relazioni attraverso chat, facebook, messenger e quant’altro, ho avvertito da subito il fastidio legato ad un tipo di comunicazione che ritengo disfunzionale in relazione a quanto gli individui hanno in genere bisogno di esprimere a livello di interscambio, anche e soprattutto emozionale. Credo che tali modalità espressive corrispondenti ad un linguaggio metallico, abbreviato, non esattamente empatico, non aderiscano ad una dimensione naturale e spontanea propria dell’animo umano. I TVB, i KE, i simboli di faccine tristi o allegre, gli sms bulimici, hanno alimentato una forma di comunicazione che propone modelli relazionali lontani anni luce dalle normali e sane relazioni nate sulla base di affinità reali e interessi comuni tangibili. Qualche amico mi rimprovera di essere troppo nostalgica e poco aperta ai cambiamenti e alle innovazioni tecnologiche. Sono convinta invece che il mondo gestito dalla computerizzazione, secondo tali modalità, sia fonte di disagi e di disfunzioni caratterizzate peraltro dall’uso eccessivo di strumenti che conducono a vere forme di dipendenza. Quello che si trasmette attraverso il computer è solo una parte, e spesso neanche la più vera, di ciò che siamo; viene saltato un passaggio che è essenziale, quello dell’immediatezza, delle sensazioni a pelle, di un certo tipo d’intuito che si estrinseca in relazione al guardare, al sentire, al percepire l’espressività, il tono e l’inflessione della voce, gli atteggiamenti, le posture, e se vogliamo anche gli odori.
Ogni giorno assisto alla delusione, all’amarezza e alle frustrazioni conseguenti a finali di “rapporti” nati via chat, attraverso una fotografia e un profilo… quando ci si incontra, dopo mesi e mesi di “scambi” all’interno dei quali si è creduto di conoscersi, alimentando aspettative non del tutto aderenti alla realtà, ci si trova al cospetto di persone assolutamente sconosciute. Tutto questo mette in discussione le proprie percezioni disorientandole, destabilizza la propria dimensione emozionale e rischia spesso di far perdere il controllo di se stessi.
Altro rischio è la dipendenza da uno strumento che si spinge parecchio oltre l’essere utile o anche solo necessario. Il bisogno di “contatto” oggi è particolarmente intenso, è compulsivo, non importa se non si ha granchè da dirsi, l’importante è essere sulla stessa lunghezza d’onda. Questo bisogno indica una necessità spasmodica di appartenenza, di complicità continua, a tratti di fuga dai contesti reali. Da sempre gli adolescenti hanno espresso questo bisogno, però è importante che i giovani sfoderino le loro potenzialità al fine di soddisfare tale bisogno mettendosi alla prova nei contatti all’interno del reale. Oggi invece i contatti arrivano fin dentro casa anche se tu non li ricerchi, devi solo accettarli o meno, ammaccando semplicemente un tasto. Lo scambio emotivo e relazionale così non è stato scelto in base alle intuizioni, alle percezioni e alle energie che bisogna tirare fuori per iniziare i rapporti e formare i gruppi. Saltando queste fondamentali tappe il rischio è quello di annullare alcune fasi indispensabili nello sviluppo psichico dei giovani in crescita e questo può portare ad un’emotività fin troppo facile da cambiare e scambiare incondizionatamente. Cosa si stanzia di se stessi, mentre si ammacca un tasto, comodamente, ben protetto dalle mura di una stanzetta? Quali energie si mettono a disposizione dell’interlocutore, dietro uno schermo? Le chiacchiere facili, spesso senza sufficiente motivazione, indipendentemente dai contenuti, costringono a contatti spesso vacui, banali, mediocri, apatici, non motivati da alcunché. Una facile protezione e una copertura a portata di mano in relazione alla noia o a qualsiasi tipo di disagio emotivo. Certamente il computer è uno strumento che facilita e agevola scambi di ogni genere, ma nel contempo serpeggia subdolamente uno svilimento delle potenzialità in relazione alle risorse umane, intese nel senso più genuino del termine; gli individui finiscono per ritrovarsi dipendenti da chi non conoscono e fondamentalmente lontani da se stessi, imprigionati dentro una stanza, senza neanche la necessità di vestirsi per mostrarsi. E’ una dimensione “autistica” che può sfociare a volte anche in forme depressive o disagi d’altro genere.
Infine spesso computer e cellulari diventano oggetti su cui vomitare diffidenza, sospettosità, insicurezze e paranoie. Madri e padri che frugano all’interno dei cellulari e dei computer dei figli nella speranza di controllarli; mogli che cercano spasmodicamente tracce di possibili tradimenti attraverso ricerche sul computer dei propri mariti… viene alimentata così quasi automaticamente una forma di invadenza e di invasione nei territori di chi ci stà accanto con un’inevitabile mancanza di rispetto che alimenta comportamenti sconsiderati.In definitiva i rapporti diventano più complicati, meno spontanei, più sospettosi, si creano cordoni ombellicali virtuali che spesso si frantumano bruscamente davanti all’evidenza dell’inconsistenza. Sono semplicemente aspetti ed effetti collaterali dell’avanzamento tecnologico? Credo sia doveroso chiederselo!

venerdì 18 settembre 2009

DONNE MADRI IN ITALIA. di Francesca Cianci

Repubblica di martedì 15 settembre 2009 pubblica un approfondita inchiesta sull’argomento “mamme che continuano a vivere con successo anche durante la gravidanza e successivamente anche subito dopo il parto”. Niente di straordinario se non leggiamo l’argomentazione in chiave italiana. In Italia realisticamente si è costretti purtroppo a considerare questi eventi assai eccezionali, quasi da scalpore. Dando per scontato che la struttura socioeconomica del nostro paese non dà la possibilità di ipotizzare in alcun modo che le donne possano permettersi una sorta di continuità lavorativa (tantomeno una gratificazione in tal senso), sono del parere che la chiave di lettura in relazione a tale condizione non si può ridurre solo al fatto che mancano le strutture base di sostegno alle donne, o che mancano leggi e normative a riguardo; ritengo piuttosto che alla base sussista, persistente, un modo d’essere e una mentalità radicata nei secoli, che appartiene non solo alle donne ma agli italiani nel complesso. Culturalmente, in Italia, la donna che diventa madre si riveste di un significato così tanto forte da sfociare molto spesso in un territorio che diventa infine “patologico”( vedi la ben nota “depressione post partum”). La donna che diventa mamma non si impregna solo della gioia di diventarlo, ma innalza un’impalcatura dentro un palcoscenico, come all’interno di una commedia. La società italiana vuole che le mamme siano in un certo modo, che pensino in un certo modo, che cambino quasi la loro identità preesistente, costringendo quella che era una ragazza libera, gioiosa, ambiziosa (o meno), a diventare spesso una donna cupa, eccessivamente responsabilizzata, piena di doveri, chiusa ermeticamente dentro un ruolo imprigionante, sola, imprigionata dentro una gabbia falsamente dorata; ne consegue che l’evento parto e il diventare madri, per le donne italiane, più che un evento naturale e gioioso, diventa spesso una specie di catastrofe che rovina e distrugge la vita di molte; ci si senta spesso anche in colpa per sentire disagio e frustrazione in un momento che dovrebbe essere “unico e meraviglioso” incondizionatamente e a prescindere da tutto! Nel mio contesto lavorativo assisto frequentemente a forme depressive conseguenti al diventare madri, e davvero non è solo un fatto ormonale. In Italia diventare madri comporta un onere psichico ed emotivo eccessivamente rilevante: Tutto questo inevitabilmente svilisce la giocosità e la naturalità dell’evento in sé. E’ un prezzo estremamente alto da pagare. La madre italiana viene vista, interpretata e decodificata secondo schemi culturali preconfezionati che alla base mantengono fermamente una mentalità falsa e innaturale, una mentalità che vuole la donna in ultimo moglie e madre, come se questo fosse in definitiva l’obiettivo vero dell’essere femminile.

Volendo andare ancora più a fondo, questa mentalità atavica ormai “connaturata” nella psicologia del mondo femminile, ha conformato e modellato nel tempo la psiche della donna, direzionandola verso questo obiettivo di fondo, pertanto le donne stesse si impregnano di una sorta di “realizzazione finale e totalizzante” una volta diventate madri e spostano automaticamente e spesso inconsapevolmente, il corso del loro modo d’essere e di sentirsi precedente all’evento, autobloccando obiettivi e ambizioni che pur esistevano precedentemente, deprivandosi quasi improvvisamente di tutto il bagaglio che caratterizzava il loro vivere fino ad allora, convogliando tutta la loro attenzione psichica ed emotiva all’interno del nuovo ruolo (che molte non avevano preventivato in questi termini), impoverendosi nei confronti di tante possibilità importanti, tranciando le loro potenzialità, marchiando la loro emotività, e cosa ancora più sconcertante è che tutto questo viene connotato come “naturale”. Questo è invece causa e fonte di svariati disturbi e di molteplici disfunzionalità. E’”naturale” che arrivati ad un certo punto della propria vita ci si dimentichi del mondo intero e ci si immetta in una dimensione “autistica”? è “naturale” dimenticare chi eravamo prima di tenere in braccio il nostro bambino? dimenticare i progetti di vita che avevamo e che quell’esserino così tenero che abbiamo tra le mani ha infranto bruscamente? Non si può considerare naturale tutto questo. In altri paesi dove la donna si vive ed è vista in modo più “naturale” e umano, diventare mamme rappresenta una grande gioia. In Italia questa gioia costa cara!

Oggi inauguro il mio blog!!!! di Francesca Cianci

Oggi inauguro il mio blog. Era un pensiero e un desiderio che coltivavo già da tempo ma devo confessare che un po’ per mancanza di tempo( sono una di quelle donne che tendono ad abbracciare lavoro e famiglia insieme con la pretesa di riuscirvi bene) e un po’ per la mia radicata antipatia verso il computer con il quale di conseguenza non ho una gran confidenza, ho trascurato questo desiderio fino ad oggi, quando dietro la spinta dei miei due figli, Andrea e Dario, rispettivamente di 25 e 12 anni, mi sono lanciata in questa specie di avventura. Ho promesso a me stessa di mantenere quanto più possibile una sorta di continuità, anche per non deludere eventuali interessati al mio blog. Spero di riuscirvi. Sono una psicologa, ho sempre amato scrivere, ho sporadicamente pubblicato articoli e scritti di vario genere in relazione a temi attuali, spesso sotto il profilo tecnico- professionale. Auguro a me stessa di poter trarre soddisfazione dai confronti che si proporranno.



Francesca Cianci